lunedì 21 marzo 2011

Woman in progress - Ruolo delle donne nella scrittura

Woman in progress - Ruolo delle donne nella scrittura


A volte ci sono giornate davvero speciali. Uno di quelle giornate è stato per me il 05/03/2011.
L’associazione italo congolese Dawa insieme ad altre associazioni di donne migranti hanno organizzato una giornata dedicata al ruolo delle donne migranti nella scrittura, nella società e nella politica:Woman in progress.
La mattinata è stato dedicata ai giovani(alcune classi del I.T.F.Selmi di Modena) con le quali abbiamo incontrato alcune scrittrici mentre il pomeriggio è stato riservato ad un pubblico adulto e si è parlato più del ruolo socio-politico delle donne migranti che vivono, studiano e lavorano in Italia.

Con i ragazzi del Selmi abbiamo fatto un interessante viaggio alla scoperta della Persia(culla della civiltà…non della guerra!) storia, letteratura, cultura, lingua delle lingue e che poesie! Sublime: Persia paese delle poesie e dell’amore. Da non crederci grazie alla persiana prof. M. Heidari.

Siamo scesi con i piedi per terra, a Modena, dove una studentessa italiana di origini marocchine ci ha raccontato di come, dopo l’ennesimo episodio di razzismo, si è chiusa in se, ha pregato, ha scoperto la sua fede ed ha “scelto” di portare il velo andando contro il parere dei suoi genitori.
Curiosità e stupore davanti alla storia di Basma che però ci fa riflettere. In Italia Basma ha potuto scegliere come vestirti e quale religione praticare: la libertà è un lusso che non tutti possono permettersi nel mondo. Iniziamo quindi a conoscere un po’ meglio alcune realtà della nostra città e a non bere tutto quello che viene semplificato, confezionato e digerito dalla stampa di grido. Non siamo tutti uguali e questo è una grande fortuna non una disgrazie. Bisogna osare pensare con la propria testa. Avere il coraggio di portare i jeans che non sono di moda in quel momento ….
Quello che è considerato normale oggi e qui, altrove può risultare “bizzarro” e purtroppo le  diversità anziché essere una ricchezza da condividere diventano spesso una scusa per ghettizzare i più deboli. Il coraggio di essere diversi e di denunciare ingiustizie e discriminazioni lo ha avuto una giovane giornalista, imprenditrice pakistana di Carpi che però in cambio del suo impegno ha ottenuto minacce di morte. Aiutare le altre donne originarie dal Pakistan come lei, Ilyas Nosheen, ad imparare la lingua italiana ha un elevato costo, ma lei ha scelto di andare avanti. Viva le donne coraggiose.
La lingua è fondamentale per vivere, per essere indipendenti ed essere membri attivi della società.
Dopo l’intervento di queste nuove donne italiana, passo la parola all’unica scrittrice indigena ovvero italiana di origini, ma internazionale nel cuore. Stefania Ragusa è una scrittrice e giornalista attualmente porta in grembo una vita nuova. A Stefania chiedo di che colore sarà suo figlio poiché suo marito è senegalese. Di che colore sarà per lei madre; di che colore sarà per suo padre; di che colore sarà per i vicini italiani; di che colore sarà per i cugini nati in africa ed infine di che colore sarà per se stesso?Una provocazione. Una realtà. Io che lavoro in sala parto vedo nascere i bambini tutti uguali poi dopo qualche giorno il buon Dio si diverte a colorarli ed ad infonderli caratteri diversi per renderli unici ed irripetibili. Stupendi. Per tutta la vita però cerchiamo di snaturali e renderli tutti uguali:stessi vestiti stesse scarpe stesse borse stesse pettinature stesso colore stessi locali, stesso tutto altrimenti…. fuori dal coro, fuori dal cerchio. Isolati. Soli. Discriminati.
Il futuro è tutto da costruire e dipende direttamente da ciascuno di noi soprattutto dagli studenti che saranno i genitori di domani.
Tanta curiosità ed interesse da parte degli studenti che attenti, hanno partecipato attivamente alla discussione raccontando dei loro viaggi all’estero dove erano loro i diversi!!!Tutti ti guardano.
Strana sensazione sentirsi sempre sotto esame,esposti, tutti gli occhi addosso. Siamo sempre noi eppure appena si varca il “confine” sembra che il nostro Valore come essere umano salga o scenda in base ad un fattore ignoto.
Forse viaggiando molto riusciamo a conoscer meglio noi stessi. Conoscendo noi stessi possiamo aprire gli occhi per scoprire il nostro prossimo ed ad essere liberi. Liberi di vivere le nostre peculiarità senza paura ….forse solo così si riuscirà a ridurre un po’ questo strano fenomeno che è negli occhi di chi ci giudica, ma attecchisce e persiste nella nostra mente.
Per me ex alunna del Selmi, oggi ginecologa e una delle organizzatrici della giornata è stato un onore moderare questa sezione della giornata. Una giornata speciale piena di speranza per il futuro.

Dtssa KINDI TAILA

MIGRANTI IN PIAZZA - Giustizia e Diritti umani

MIGRANTI IN PIAZZA : COORDINATRICE NAZIONALE ALLA MISNA



Da una piazza Nettuno gremita, a Bologna circa 10.000 persone stanno partecipando alla manifestazione ‘24 ore senza di noi’, la giornata dei migranti in Italia. Dal capoluogo dell’Emilia, regione pilota per il Primo Marzo, sta per partire una lunga marcia per le vie del centro e la coordinatrice nazionale del comitato organizzativo, la congolese Cécile Kyenge Kashetu, dice alla MISNA che “la giornata di oggi, in tutte le piazze e le strade d’Italia la dedichiamo a Noureddine Adnane”, il giovane marocchino morto la scorsa settimana a Palermo dopo essersi dato fuoco in segno di protesta contro l’ennesimo controllo da parte delle forze dell’ordine.
“Migranti e cittadini italiani devono essere uniti, solidali per fare fronte comune contro le politiche di lavoro attuate nel paese, politiche che formalizzano lo sfruttamento della persona umana” insiste la Kashetu tornando subito alla difficile situazione in Nord-Africa, dalla Tunisia all’Egitto, e allo scenario libico. “Urge una revisione della legge Bossi-Fini per consentire ai rifugiati politici di entrare sul territorio e vedere il proprio diritto a chiedere l’asilo rispettato – prosegue la coordinatrice del Comitato 1° Marzo – e già sentiamo parlare di un’emergenza biblica di fronte all’arrivo di numerosi migranti a Lampedusa”. Una lettura politica e strumentale dell’attualità secondo la Kashetu che rivela “una totale assenza di analisi più profonda e globale del fenomeno migratorio su scala mondiale”.
Per quanto riguarda i rapporti privilegiati tra Roma e Tripoli ma anche accordi firmati in generale tra paesi del nord e del Sud del mondo, l’attivista congolese ribadisce che “il rispetto delle persone e dei diritti umani fondamentali sono al di sopra di ogni accordo economico che diventa obsoleto dal momento in cui l’essere umano non viene più rispettato”.
Da Bologna, l’interlocutrice della MISNA puntualizza che in realtà ‘l’impasse’ attuale  non è soltanto il “fallimento delle politiche migratorie dell’Italia” ma soprattutto la conseguenza diretta “del silenzio dell’Unione europea che ha favorito l’accesso e la permanenza al potere di dirigenti che hanno fatto del proprio paese un carcere a cielo aperto”.
L’attivista congolese non fa riferimento soltanto alla Libia ma anche ai numerosi paesi del Sud del mondo, a cominciare dal suo, “le cui ricchezze vengono sfruttate da multinazionali mentre i locali vivono nella totale miseria”. Una mappa della ‘geopolitica dell’economia’ che, secondo la Kashetu , risale ai tempi coloniali (dal patto di Berlino siglato nel 1885) con “le potenze occidentali che si spartiscono i territori dell’altra parte del pianeta in una nuova forma di colonialismo”.

http://www.misna.org/giustizia-e-diritti-umani/migranti-in-piazza-3-coordinatrice-nazionale-alla-misna/

Migranti in piazza per i diritti. Di tutti.


Migranti in piazza per i diritti. Di tutti.

Cécile Kyenge Kashetu

Diritto al lavoro, diritti nel lavoro e una nuova cittadinanza fondata sulla "mixitée": queste le tre parole d'ordine dello sciopero dei lavoratori immigrati. Sessanta piazze in tutta Italia il primo marzo scorso hanno ospitato i cartelli, gli striscioni e le proteste di 150mila persone migranti, che per il secondo anno consecutivo hanno aderito ad uno sciopero con l'intento di far capire agli italiani quanto importante sia l'apporto degli stranieri nella vita del nostro Paese. Cécile Kyenge Kashetu, coordinatrice nazionale e portavoce del movimento Primo Marzo, la rete di associazioni che ha promosso e organizzato la giornata di mobilitazione, ci racconta numeri, ragioni e protagonisti dello sciopero. 

Perché questa seconda edizione dello sciopero dei migranti? In quanti hanno aderito?
Il primo marzo sono scese in piazza 150mila persone immigrate. Bologna, Torino, Roma e altre città di questo Paese hanno ospitato una manifestazione la cui affluenza è scesa rispetto allo scorso anno, ma che ci ha lo stesso riempiti di gioia. Il primo marzo 2011 lo abbiamo dedicato alla memoria di Noureddine Adane, il ragazzo tunisino ventottenne che si è dato fuoco in via Basile, a Palermo, per protestare contro l'ennesimo controllo da parte della polizia municipale. Noureddine aveva una casa, aveva un permesso di soggiorno e un regolare lavoro, ma era stanco. Stanco di essere etichettato, discriminato, scansato. Il suo sogno era quello di mettere da parte un po' di soldi per far arrivare in Sicilia il resto della sua famiglia. E quel sogno si è infranto contro la nostra durezza. Mi piace anche ricordare come la nostra battaglia sia partita, lo scorso anno, dai fatti di Rosarno. La situazione italiana di oggi è diversa da quella di un anno fa: non c'è stata un'altra Rosarno, ma migliaia di migranti, oggi, rischiano di perdere il permesso di soggiorno, e quelli che il permesso non ce l'hanno vengono troppo spesso additati come criminali e condannati al lavoro nero gestito dai "caporali". Il primo marzo non si è concluso con le manifestazioni in piazza ma deve rinnovarsi ogni giorno nel quotidiano lavoro che siamo chiamati a fare per trasformare la società dal basso, con rigore e determinazione. 
 Diritto al lavoro e diritti nel lavoro: queste le parole d'ordine del Primo Marzo 2011. Le occupazioni della gru e della torre a Brescia e Milano, le vicende di Pomigliano e Mirafiori e quelle degli scioperi dei metalmeccanici descrivono oggi una situazione forse ancora più grave rispetto a quella che vi ha portati in piazza un anno fa. Cosa significa, in piena crisi economica, chiedere il diritto al lavoro?
Chiedere il diritto al lavoro significa chiedere condizioni uguali per tutte le persone: perché i contratti di lavoratori stranieri e italiani continuano ad essere diversi? Un Paese fondato sull'uguaglianza dei diritti fondamentali delle persone, un Paese che ha ratificato la convenzione di Ginevra, non può accettare che questo accada. Chiedere il diritto al lavoro significa anche denunciare come le persone sottoposte al lavoro nero siano più facilmente ricattabili e quindi candidate alla clandestinità. Se un lavoratore migrante perde il lavoro, nell'arco di sei mesi deve trovare un altro impiego, altrimenti diventa clandestino e colpevole di un reato. Poi finisce nei centri d'identificazione e di espulsione e, alla fine, per effetto dei respingimenti, rischia di essere chiuso in vere e proprie prigioni.
 Il vostro comitato lotta per diffondere una nuova idea di cittadinanza, fondata sulla "mixitèe": cosa significa?Abbiamo insistito sul concetto di "mixitèe" anzitutto per chiarire il fatto che quello del primo marzo non è stato uno  sciopero "etnico". Abbiamo chiesto sia ai migranti sia agli italiani di scendere in piazza perché la cittadinanza che oggi viene attaccata è la cittadinanza di tutti: quando si indeboliscono i diritti di alcuni a venir meno è il diritto di ognuno di noi. Parlare di "mixitèe" significa parlare di una società che privilegia lo scambio culturale, l'interazione ancor più che l'integrazione.  "Mixitèe" vuol dire costruire un Paese dove tutti possano condividere i valori della propria cultura con quelli di altre culture, un Paese nel quale ognuno mantiene la sua identità, ma la diversità di ciascuno diventa una ricchezza. 

Nella battaglia per i diritti è quindi possibile un'alleanza tra persone immigrate e cittadini italiani? 
Certo che è possibile, è proprio quello che chiediamo. Noi stessi, del resto, ci sentiamo stranieri non dal punto di vista anagrafico ma perché estranei al clima di razzismo che avvelena l'Italia oggi. Ecco perché dobbiamo unirci, immigrati e italiani, in una battaglia di civiltà. 
 
In che forme è possibile condurre questa lotta?Le forme di mobilitazione possono evidentemente essere diverse. Noi abbiamo scelto l'astensione dal lavoro, che non può essere solo uno strumento nelle mani dei sindacati. Ovviamente non potevamo dichiarare uno sciopero generale come fanno le organizzazioni sindacali, ma ci siamo avvalsi del diritto di sciopero individuale, che è un diritto costituzionale, di tutti. In questo modo abbiamo voluto portare in piazza quella parte invisibile del Paese che, pur essendo nascosta o, peggio, emarginata, contribuisce in modo importante all'economia italiana.  
 
Nelle piazze di Roma, Bologna e Torino sono stati esposti molti cartelli di solidarietà con le rivolte in Libia e Tunisia: come può l'Italia, anche l'Italia dei migranti che oggi qui vivono e lavorano, fare la sua parte in queste lotte per i diritti e la democrazia?Quelle fatte in Egitto, Tunisia o Libia, pur nell'evidente diversità, non sono battaglie così distanti da quelle che in molti, oggi, conducono qui in Italia. La giornata del primo marzo, del resto, ha visto molti comitati manifestare anche contro quello che sta avvenendo in Libia e a sostegno delle proteste del popolo che si sta ribellando. L'Italia ha le sue colpe per aver preso accordi con Paesi come la Libia in materia di respingimenti. Ma ora, con tutta l'Europa, ha una preziosa occasione per cambiare le politiche sull'immigrazione, e per mettere in atto ciò che sulla carta esiste già, ovvero la libera circolazione delle persone.
 
A proposito di "carte", lei ha partecipato personalmente alla stesura del testo della Carta mondiale dei migranti firmata in Senegal la settimana scorsa, che afferma per ogni individuo la libertà di poter circolare e installarsi ovunque desideri. Era necessario un altro documento di questo tipo? Non basterebbe ratificare le tante convenzioni internazionali che già esistono?Ne abbiamo discusso molto attentamente. Il fatto è che questa carta hadoppiamente senso, perché tutte le convenzioni scritte fino ad oggi sono state redatte dalle istituzioni e dagli Stati. Nessuno ha mai chiesto a noi migranti quali fossero le nostre esigenze. Vogliamo che le priorità in materia di immigrazione e di diritti alla libera circolazione vengano individuate anche con l'apporto migranti: ecco perché ci siamo ritrovati, immigrati di tutto il mondo, in Senegal. Ed ecco perché prima di arrivare alle Nazioni Unite per chiedere un riconoscimento "ufficiale" di questa carta chiederemo ad associazioni e organizzazioni non governative di "testarla", nella convinzione che chiedere e applicare la libertà delle persone significa partire dalle storie, dai vissuti, dai desideri delle persone stesse.  
 
Oltre ad essere coordinatrice del movimento lei è consigliere provinciale a Modena e responsabile del forum della cooperazione internazionale e immigrazione. Quali pregiudizi rischia un cittadino immigrato che decide di fare politica? È difficile impegnarsi in politica in quanto migrante, e nel mio caso è doppiamente difficile perché sono donna.  È complesso, in quanto donna, conciliare i tempi:  io sono madre di due figlie, una di 18 e una di 16 anni,  ho un marito, sono un medico. Trovare tempi e attenzione per ogni cosa è un'impresa più che mai difficile, per me come per tutte le donne. È però complesso anche impegnarsi in politica in quanto migrante, perché ti ritrovi sempre a combattere affinché non ti vengano attribuiti ruoli "tanto per...". Del tipo "abbiamo bisogno di un immigrato per riempire quel posto", "abbiamo bisogno dei migranti per far vedere che il nostro è un partito aperto". Bisogna avere le idee chiare e soprattutto essere determinati. Non è facile, perché il rischio è sempre quello che gli altri ti guardino come se occupassi quel posto così, tanto per occuparlo. Bisogna sempre dimostrare il doppio rispetto a quello che dimostrano gli altri. In più, non è detto che tutti nel partito la pensino come te, oppure che condividano il fatto che tu, migrante, possa occupare un posto di responsabilità. Non è facile, per nulla, l'unica via d'uscita è partecipare a tutto campo, fare corsi di aggiornamento, formarsi. Solo così si possono combattere i troppi pregiudizi dei quali ancora, inutile negarlo, siamo vittime. 
 
(Federica Grandis)
http://www.gruppoabele.org/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/1441

Solo noi donne possiamo costruire una nuova Africa

Solo noi donne possiamo costruire una nuova Africa
JULIET TOROME
In Kenya, il mio Paese d’origine, si usa dire che quando due elefanti combattono, è l'erba a soffrirne. E questo è evidente nei numerosi conflitti che l’Africa ha visto negli ultimi 50 anni. Nella Repubblica Democratica del Congo, le bande di predoni che pretendono di essere combattenti per la libertà, e l’esercito governativo che li combatte, hanno usato per decenni lo stupro come arma contro donne indifese. Dopo la fine del genocidio ruandese, il pesante fardello di ricostruire una società devastata è stato sostenuto dalle donne del Paese.

Eppure, quando si tratta di azioni per evitare tali crisi, le donne africane spesso vengono lasciate da parte. Si considerino gli attuali sforzi dell'Unione africana per trovare una soluzione all'impasse politico seguito alle elezioni in Costa d'Avorio. Tra i cinque leader africani convocati in occasione del vertice dell'Unione africana ad Addis Abeba, in Etiopia, per coordinare i negoziati, non c’era nemmeno una donna.

E, cosa ancora più offensiva per le donne africane, l'Ua le ha bypassate a favore di uomini il cui impegno a favore della democrazia e dei diritti umani è persino peggio di quello di Laurent Gbagbo, l'uomo aggrappato alla presidenza ivoriana nonostante abbia perso le elezioni. Dei cinque uomini designati per guidare la missione per convincere Gbagbo a dimettersi, solo due - Jakaya Kikwete della Tanzania e Jacob Zuma del Sud Africa - possono affermare di essere arrivati al potere democraticamente. Gli altri tre, Mohamed Ould Abdel Aziz della Mauritania, Idriss Déby del Ciad, e Blaise Compaore del Burkina Faso, hanno preso il potere grazie a colpi di Stato, alcuni dei quali violenti. La situazione è ancora più ironica. L'Ua è piena di uomini che non sono migliori di Gbagbo. Meles Zenawi, che ha ospitato il summit, ha governato l'Etiopia per quasi 20 anni e non ha convinto nessuno della regolarità e della correttezza delle elezioni al di fuori della sua cerchia di amici intimi.

Nemmeno il nigeriano Goodluck Jonathan, che è a capo della Comunità economica degli Stati dell'Africa occidentale (Ecowas) e sostiene l'intervento militare contro Gbagbo, esce indenne da questo esame. Jonathan oggi è Presidente della Nigeria perché il defunto Umaru Musa Yar'Adua, suo predecessore, andò al potere grazie a quelle che molti considerano elezioni truccate. E cosa potrebbe dire il primo ministro del Kenya Raila Odinga se Gbagbo gli chiedesse come mai lui - a differenza di Alassane Ouatarra, che l'Ua riconosce come presidente legittimo della Costa d'Avorio - ha accettato un accordo di condivisione del potere dopo le contestate elezioni presidenziali del 2007?

Finché l'Africa sarà piena di questi uomini discussi, l'applicazione di «soluzioni africane ai problemi africani», come amano dire, non arrecherà alcun beneficio al continente. So che molti sostengono che il pool di donne africane note è limitato alla presidente della Liberia Ellen Johnson Sirleaf, al Nobel per la pace Wangari Maathai, a Ngozi Okonjo-Iweala, ex ministro delle Finanze nigeriano e attuale vice presidente della Banca Mondiale, e a Graça Machel, ex first lady del Mozambico e del Sudafrica, e poche altre. Potrebbero anche avere ragione, ma una qualsiasi di queste quattro donne potrebbe svolgere un’opera di mediazione dei conflitti africani più efficace di tutti i presidenti dei Paesi dell'Ua messi insieme.

Il problema con l'Africa è che spesso i funzionari governativi di più alto rango non hanno le migliori soluzioni. In molti casi, i funzionari di rango inferiore, o anche qualcuno al di fuori del governo, potrebbero essere più efficace. A volte ciò di cui l'Africa ha bisogno è maggior buon senso e persone che - a differenza dei potenti «grandi uomini» africani - sono disposte a mettere da parte l’orgoglio e porre domande semplici che gli altri non vogliono affrontare.
Una donna al vertice di Addis Abeba avrebbe potuto, per esempio, chiedere a coloro che invocano la guerra di spiegare come, data la loro incapacità di controllare milizie mal armate in Somalia, Repubblica Democratica del Congo, Uganda, e altrove, hanno intenzione di sconfiggere Gbagbo. Una donna avrebbe potuto ricordare a quelli che minacciano di fare la guerra a Gbagbo che, iniziati i conflitti, gli uomini vanno a combattere nella giungla, lasciando le donne a prendersi cura dei bambini.

Sono le donne che dovranno poi raccogliere quel poco che hanno e fuggire nei Paesi vicini, che stanno già lottando per sfamare i propri figli. E sono le donne che saranno violentate, mutilate e uccise, come il mondo ha visto di recente ad Abidjan, la capitale della Costa d'Avorio, quando le forze di Gbagbo hanno massacrato sette donne nel corso di una protesta pacifica.

Ci fossero state delle donne a capo dell’Ua, avrebbero saputo che il machismo degli uomini africani non permette loro di essere scossi dalla minaccia di un confronto violento. Una donna non avrebbe detto a Gbagbo, «Arrenditi o affronta la guerra». Invece, Graça Machel avrebbe potuto raccontargli quanto Nelson Mandela, suo marito, sia stato felice di andare in pensione. Wangari Maathai avrebbe parlato a Gbagbo di ex leader africani, come Daniel arap Moi del Kenya, che nonostante la pessima condotta in tema di diritti umani mentre era in carica, è stato perdonato perché ha scelto di rispettare la volontà del popolo.

Come Thomas Sankara, l'uomo che Compaoré esautorò nel 1987 per diventare presidente del Burkina Faso, «Le donne reggono l'altra metà del cielo». Purtroppo, gli uomini dell'Unione africana ci hanno emarginato e il cielo in Costa d'Avorio sta di nuovo per crollare.

Juliet Torome, scrittrice e regista, ha ricevuto il primo premio Flaherty per i documentari assegnato da CineSource Magazine
traduzione di Carla Reschia